mercoledì 16 Aprile 2025 - Anno 34

L’EPOPEA DEI COLTELLI

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Dalla cucina alle tasche di delinquenti, spacciatori, giovani ed assassini

La vita  del “coltello”, nelle sue varie forma e possibilità d’uso, ha attraversato secoli di storia e spesso cambiato “vita”, divenendo da utensile di uso quotidiano sulla tavola dei popoli, a strumento utile nell’agricoltura, a subdola arma di aggressione, leggasi Giulio Cesare, in primis, e via via prendendo le forme del pugnale, in fondo sempre un coltello più grande e robusto, divenuto ricurvo nei paesi arabi, o sottilissimo stiletto di morte in molti gialli. Anche le tribù dei nativi americani, chiamavano i soldati “lunghi coltelli” per indicare le loro sciabole.
Per tanti anni il coltello, tranne che in rari casi, aveva “riposato” nelle tasche dei contadini e nei cassetti delle cucine, divenendo utensile da lavoro ed importante posata da mettere sul tavolo per il pranzo. Utensile o posata che cambiava di forma a seconda della necessità per il pesce, per la carne, per il dolce, per la frutta.
Poi, improvvisamente  qualche anno fa, e  sensibilmente di più in questi ultimi tempi, il coltello è diventato strumento di morte, strumento di poco prezzo ed a portata di mano di tutti, per risolvere una rissa, uno sgarbo, uno sguardo di troppo, come si usa dire , ad una ragazza. Le nuove generazioni figlie di immigrati non sempre ben inseriti nella nostra società o figlie di famiglie problematiche o che fanno della violenza e della  prevaricazione il proprio credo, girano ormai armati di coltelli di varie forme e dimensioni, pronti ad usarlo sia per rapinare il prossimo, che per , a loro dire, difendersi non si sa bene da quali insidie.
Ma il fenomeno più eclatante riguarda la sfera affettiva dei nostri giovani che troppo spesso e troppo presto si uniscono per poi scoprire delle nuove affettività, lasciando nello sconforto persone fragili, o mentalmente non proprio a posto, incapaci di accettare una sconfitta, un rifiuto, un abbandono. Giovanissimi che, con il consenso delle famiglia  si incamminano su sentieri che dovrebbero prima conoscere dove portano e con chi dovrebbero essere percorsi. Relazioni “bruciate” dall’ansia del momento, convivenze messe su senza quasi conoscersi danno il via ad abbandoni , ad unioni dove  nel breve prevale la violenza , il senso del possesso, l’odiosa frase “ o mia o di nessuno”. E qui, come accaduto di recente a Roma ed a Messina, ci scappa l’accoltellamento e la morte di giovani donne, la distruzione di intere famiglie, la sensazione che si stia entrando in un mondo dove tutto si costruisce ed in fretta ed altrettanto i  fretta si brucia.
Ma qui non stiamo parlando di carta o di uno di quei “cretini” giochi da computer o da cellulare, qui stiamo parlando di cose vere di sofferenze vere. Si tratta di atti terribilmente dolorosi come i femminicidi o come quei poveri figli che per difendere la madre dalla angherie del padre, si trovano nella disperata situazione di doverlo uccidere come per due volte è recentemente accaduto. Coltelli, coltelli e solo coltelli, sempre addosso e sempre in mano per risolvere una questione, per attaccare un anziano e derubarlo, per ammazzarsi tra minorenni per un nonnulla.
Le soluzioni sino ad oggi adottate hanno sortito effetti davvero poco confortanti stante l’incapacità o il vuoto legislativo per poter agire prima, muoversi al minimo sospetto, alla prima comprovata denuncia, al primo comprovato accenno di violenza. Ed a poco servono braccialetti elettronici che spesso “falliscono”, divieti di avvicinamento puntualmente disattesi, cortei di protesta che, come sempre, lasciano il tempo che trovano. Scarpette rosse sistemate in bella vista in una piazza o su una scalinata sono il triste simbolo del fallimento di una parte della nostra società, il triste simbolo di una libertà di essere e comportarsi per la quale moltissimi giovani e meno giovani non hanno ancora saputo guadagnarsi credendo al tutto facile ed al tutto possibile, anche all’annullamento con la morte di quella persona che era diventata un problema.
Le carceri, le nostre benedette carceri, stracolme di persone che stanno tutto il santo giorno a guardare dei muri, non potrebbero ed in effetti non possono essere la migliore forma per il dopo ed anche la migliore forma per il “non più libero per anni ed anni”.
La società, le famiglie, la scuola dovrebbe curare le persone e renderle consapevoli del contesto i cui le stesse sono inserite, un contesto reale e non virtuale, un contesto nel quale non è strettamente necessario bruciare le tappe che portano alla maturità, alla capacità soggettiva e non  oggettiva del ragionamento e del comportamento conseguente.
Ci viene da credere che per i delitti di questo genere ormai freddamente consumati , la pena non sia il carcere, ma la detenzione prolungata in luoghi sicuri in cui lavoro studio e confronto siano per anni scuola di vita, siano per anni, tanti anni, quella maturazione di se stessi che è mancata nel “prima”. E ci viene anche da credere che una lunghissima detenzione in queste condizioni possa essere un buon deterrente per non pensare neppure di fare quello che “prima” si poteva fare magari cavandosela con una temporanea incapacità di intendere e volere, un delitto non premeditato, attenuanti superiori alle aggravanti, che spesso portano e pene detentive davvero umilianti per chi è stato vittima.
E questa “pena” lavorativa e riabilitativa potrebbe essere estesa ai tanti omicidi stradali a tante violenze di baby gang, a tanti reati che sono sempre più di attualità e che si commettono nella quasi certezza di non essere puniti. Lavorare e molto senza essere liberi stanca, ma forse fa riflettere, essere città chiusa in un contesto di città aperta dove si fa ciò che si vuole, potrebbe far riflettere. Essere città chiusa dove si lavora e si studia volenti o nolenti potrebbe essere qual campanello d’allarme che suona nella testa di chi sta pensando di fare qualcosa ad un’altra persona. Provarci forse non sarebbe male, ma bisogna volerlo, fermamente volerlo prima di tutto.

Pier Marco Gallo

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